Categoria: Pensieri e Parole

Non chiedermi se sono felice

In realtà una parte di quello che voglio dire lo canta Lucio Dalla in pochi poetici e memorabili versi:

Ah felicità/Su quale treno della notte viaggerai
Lo so/Che passerai
Ma come sempre in fretta/Non ti fermi mai

L’altra parte l’ha riassunta benissimo Romain Gary in un passaggio del suo meraviglioso romanzo “La vita davanti a sè“:

I ragazzi che si bucano diventano tutti abituati alla felicità e questa è una cosa che non perdona, dato che la felicità è nota per la sua scarsità […] ma io non ci tengo tanto a essere felice, preferisco ancora la vita.

Ora, non intendo misurarmi, con le mie riflessioni, con due grandi come Dalla e Gary, ma quando penso al concetto di felicità non riesco a fare a meno di richiamare alla mente queste due citazioni. Due citazioni che in realtà fungono da monito e mi aiutano a non lasciarmi andare all’autocommiserazione; devo infatti aggiungere che, di solito, penso alla felicità quando mi sento annoiata o frustrata il che al momento, con una bambina di 19 mesi che ancora ha i suoi momenti di difficoltà col sonno notturno, mi capita più spesso di quanto vorrei ammettere.

Se c’è una cosa sulla quale sono pronta a scommettere è che non sono l’unica a cadere in questo trappolone e a farmi di tanto in tanto, senza che sia successa alcuna disgrazia che giustificherebbe l’interrogativo, l’inopportuna domanda: ma perché non posso essere felice? Nei vari tentativi di trovare una risposta, nel tempo mi sono accorta che quella non è nemmeno la domanda esatta… la domanda esatta, più infida, che in realtà mi sto ponendo è: perché non posso essere sempre felice? Nel momento in cui me lo chiedo sono serissima, come se fosse possibile sia trovare una risposta sia soddisfare la richiesta, ovvero essere sempre felici. Come se fosse, tra l’altro, questione di performance. Ogni volta ci impiego qualche secondo di troppo a ricordarmi che questa aspirazione è pura utopia e che, in quanto tale, non potrà mai essere raggiunta. E meno male, aggiungo. Ma perché allora, periodicamente, questo interrogativo torna ad assillarmi e sempre con la stessa forza?

Sono convinta che molto di ciò che succede nel nostro cervello, in modo automatico, quando ci accostiamo al concetto di felicità sia fortemente influenzato dalla cultura del capitalismo e dell’apparenza che domina il nostro quotidiano; per essere sempre felici dovremmo avere più soldi, più successo, più riconoscimenti, più di tutto e non solo, dovremmo avere poi sempre più di tutto perché, a quel punto, niente basta mai. D’altra parte non è un caso che la stragrande maggioranza delle pubblicità siano “aspirazionali” ovvero che, insieme al prodotto, mirino a venderti la sensazione, ovviamente positiva, di come potresti sentirti se solo possedessi quel prodotto. Inoltre, e non è secondario, per un altro vizio di cultura in Occidente siamo portati a considerare le cose positive molto più di quelle negative, dimenticandoci che:

  1. le cose negative sono tanto necessarie quanto quelle positive per la nostra evoluzione personale;
  2. spesso le cose belle, quelle belle davvero, vengono fuori da cose meno belle come, ad esempio la fatica e il sacrificio;
  3. senza il negativo, come faremmo mai a sapere cos’è il positivo (Eraclito, mi senti)?

Già solo tenere a mente queste cose mi aiuta a ridimensionare all’istante il fastidio che provo quando mi accorgo che, di nuovo, mi sto arrovellando sul nulla. Quello che spero di riuscire a fare un giorno è smettere del tutto di chiedermi se sono felice (e cercare di misurarne il “quanto”), di pianificare e agire dando la caccia a una cosa fugace, contingente (quello che mi fa felice oggi, magari non mi fa felice domani) e mutevole come la felicità.
Vorrei smettere di dirmi che se solo avessi/potessi fare una determinata cosa o se solo qualcosa fosse diverso sarei più felice (salvo che poi, anche quando la condizione si realizza, capita di sentirsi felici per circa tre secondi prima di cominciare a inseguire qualche altra chimera) e, semplicemente, vivere tutto l’enorme casino che è questa vita. Anche perché ho come idea che la ricerca spasmodica della felicità sia in realtà la più grande antagonista alla sua realizzazione e possa rendere più difficile riuscire ad assaporare con spontaneità e fino in fondo tutti i piccoli assaggi di felicità che ci vengono dispensati dal caso.

Hai mai pensato a quanto la nostra cultura abbia idealizzato il concetto di felicità?
Ti va di raccontarmi di quella volta che credevi che la realizzazione di un obiettivo ti avrebbe fatto toccare il cielo con un dito, ma poi non è stato così?

Va’ dove ti porta il cuore

Il titolo del romanzo più famoso di Susanna Tamaro è ormai diventato un’espressione comune, che è entrata a far parte delle nostre vite e del nostro immaginario. Mi è capitato più volte di sentirlo dire, l’ultima di recente in risposta a una richiesta di consiglio, il che francamente sulle prime mi ha lasciato un po’ perplessa visto che, almeno per quanto mi riguarda, cuore e testa riescono a darsele di santa ragione per giorni senza che emerga un chiaro vincitore.

Stando così le cose mi è venuto spontaneo chiedermi cosa diavolo voglia dire esattamente “andare dove porta il cuore”. Mi sono rifiutata di fermarmi a una visione superficiale della questione dove seguire il cuore significa semplicemente fare quello che ci pare, come ci pare e quando ci pare, senza badare alle conseguenze e magari a discapito del prossimo. Così come rifiuto di pensare a un seguire il cuore fatto di nuvolette rosa di zucchero, unicorni e arcobaleni.

Sgombrato quindi il campo e prima di etichettare il consiglio come stupido, mi sono messa a contemplare questa esortazione che, di suo, è davvero molto affascinante. Credo sia rimasta a decantare per giorni nel background del mio cervello senza che me ne accorgessi per poi tornare alla ribalta con un’interpretazione che mi ha convinta.

Andare dove porta il cuore significa avere il coraggio di scegliere per sé stessi una vita che non nega né cela ciò che realmente siamo; vuol dire conoscersi a sufficienza da sapere quali sono le proprie ambizioni e i propri limiti, le proprie convinzioni e i propri punti deboli e prendere quindi delle decisioni coerenti con il proprio essere, che non ci stiano strette, ma che nemmeno ci pongano in una situazione estremamente frustrante. Significa vivere in modo sereno, consapevoli dei propri mezzi, senza andare alla ricerca spasmodica di qualcosa che non si è. Significa non vivere una vita fatta di calcoli e tornaconti basati sulla proiezione di una rappresentazione esteriore di sé che non corrisponde al nostro sentire interiore. Significa quindi anche rispettarsi, seguendo il proprio istinto e non modellandosi costantemente sulle aspettative altrui, oltre che non mettersi costantemente in competizione con gli altri, perché la vita non è una gara e ciascuna delle nostre esistenze non può mai veramente essere paragonata ad un’altra perché mai due vite saranno identiche; non esiste un’unità di misura che possa mettere davvero a confronto due vite e stabilire quale delle due sia migliore o di maggior successo.

Insomma, alla fine credo che questo “va’ dove porta il cuore” implichi comunque in un certo qual modo anche l’utilizzo dell’intelletto. Volente o nolente non siamo creature di puro istinto, anche se è importante accogliere la nostra parte istintuale. Dunque, seguire il proprio cuore per me vuol dire ascoltarsi, eliminare il rumore di fondo che, oggi più che mai, ci insidia costantemente dall’esterno ed avere il coraggio necessario a seguire la propria strada, anche quando essa appare molto accidentata, senza incappare nella tentazione di scegliere una scorciatoia che, per quanto ci possa far sentire più “sicuri”, non potrà mai darci la soddisfazione di sapere di aver vissuto pienamente la nostra vita.

E tu, segui il tuo cuore? Cosa significa per te “andare dove ti porta il cuore”? Dimmi tutto, sono impaziente di aggiungere altre sfaccettature alla mia interpretazione!

#torneremoaviaggiare, ma intanto che nostalgia

Ma tu te lo ricordi ancora di quando si poteva decidere, così su due piedi, che era arrivato il momento di prenotare un altro viaggio? Niente green pass, niente “fammi-prenotare-un-tampone-oddio-come-cavolo-si-fa”, niente scorte di mascherine in valigia né dubbi del tipo “chissà, forse sto facendo una cazzata”.
Quella sensazione iniziale di avere tutto il mondo a portata di mano, lieve delirio di onnipotenza…

Quasi quasi non mi ricordo più di quel brividino lungo la schiena che mi dava aprire svariati siti di compagnie aeree e cominciare a restringere la scelta sulla meta in base a disponibilità di voli e sì, ammettiamolo anche se è meno romantico, prezzi, cui seguiva la caccia selvaggia del b&b perfetto su Booking o simili.

Nelle settimane precedenti la partenza la goduria di recuperare una guida Lonely Planet e decidere gli itinerari per sfruttare al meglio i pochi giorni a disposizione. Spulciare i blog di viaggio per scovare quell’angolino speciale che nemmeno sulla guida è segnato. Disegnare qualche mappa dei punti di interesse. Preparare la valigia lasciando un po’ di spazio per quei souvenir da riportare a casa che, alla fine, non compro mai. Assicurarsi di avere con sé almeno una scheda SD aggiuntiva per la macchina fotografica.

E poi l’arrivo in aeroporto, l’attesa al gate che sembra dilatarsi fino a durare un paio di lustri, i viaggiatori quelli molesti, che vorresti proprio non fossero sul tuo volo, quelli che, immancabilmente, salgono dall’ingresso opposto a quello dove hanno il posto a sedere assegnato creando ingorghi che manco a Calcutta nell’ora di punta. Il decollo, il bucare le nuvole, quel pisolino che più che riposarti ti rimbambisce, l’atterraggio. E finalmente l’inizio di una nuova avventura.

Te lo ricordi?

Tra tutte le cose che la stramaledettissima pandemia ci ha portato via, per un tempo che ormai sembra infinito, che non si sa per quanto ancora durerà e in ogni caso è già stato decisamente troppo lungo, per me il piacere del viaggio è sul podio, subito sotto allo stare con i propri familiari e amici quando ne hai voglia. Ho una voglia pazzesca di immergermi nella cultura di un altro paese, di respirarne gli odori, di assaggiare cibi tipici, di fare la cretina imitando una statua trovata in una piazzetta qualsiasi, di girovagare per strade sconosciute piene di bellezza, di abbandonarmi a giornate non scandite dal lavoro o dalle incombenze domestiche. Ho voglia di dimenticarmi casa mia, fosse anche solo per 3/4 giorni.

La guida di Berlino, meta del viaggetto che avevo prenotato per aprile 2020, è lì che mi guarda dallo scaffale della libreria, ma non è ancora arrivato il momento di riprenderla in mano, non adesso che la situazione in giro per il mondo è ancora così precaria. Spero solo che questa profonda nostalgia si possa trasformare in entusiasmo per una nuova destinazione in fretta, molto in fretta.

Ti manca viaggiare?
Opti anche tu per la prudenza o hai deciso di andare all’estero nei prossimi mesi?
E dove vai di bello? Raccontami tutto nei commenti 😉