Categoria: Ego

Non ci sto 2023

Sposo ancora ogni parola dell’articolo “Non ci sto” che ho scritto l’8 marzo 2016 anche se sono passati tanti anni ed è quindi passata tanta acqua sotto i ponti. Molte cose sono cambiate e diventare madre ha aggiunto vari livelli di complessità e molestia a ciò che oggi, almeno per me, significa essere donna.

E continuo a non starci alle pressioni sociali, a questa società ancora dominata da un maschilismo dilagante. E ci sto ancora meno perché, ahimè, mia figlia è femmina e spero tanto che, ben prima che arrivi alla mia età, stia vivendo in una società davvero più equa e paritaria. Di sicuro continuerò a lottare affinché questo avvenga.

Non ci sto perché prima di essere una donna sono una persona. E non ci sto perché essere donna non deve essere una condanna.

Auguri, donne!
Non smettiamo mai di essere ciò che siamo, quello che ciascuna di noi è veramente, e non quello che ci si aspetta da noi.

Non chiedermi se sono felice

In realtà una parte di quello che voglio dire lo canta Lucio Dalla in pochi poetici e memorabili versi:

Ah felicità/Su quale treno della notte viaggerai
Lo so/Che passerai
Ma come sempre in fretta/Non ti fermi mai

L’altra parte l’ha riassunta benissimo Romain Gary in un passaggio del suo meraviglioso romanzo “La vita davanti a sè“:

I ragazzi che si bucano diventano tutti abituati alla felicità e questa è una cosa che non perdona, dato che la felicità è nota per la sua scarsità […] ma io non ci tengo tanto a essere felice, preferisco ancora la vita.

Ora, non intendo misurarmi, con le mie riflessioni, con due grandi come Dalla e Gary, ma quando penso al concetto di felicità non riesco a fare a meno di richiamare alla mente queste due citazioni. Due citazioni che in realtà fungono da monito e mi aiutano a non lasciarmi andare all’autocommiserazione; devo infatti aggiungere che, di solito, penso alla felicità quando mi sento annoiata o frustrata il che al momento, con una bambina di 19 mesi che ancora ha i suoi momenti di difficoltà col sonno notturno, mi capita più spesso di quanto vorrei ammettere.

Se c’è una cosa sulla quale sono pronta a scommettere è che non sono l’unica a cadere in questo trappolone e a farmi di tanto in tanto, senza che sia successa alcuna disgrazia che giustificherebbe l’interrogativo, l’inopportuna domanda: ma perché non posso essere felice? Nei vari tentativi di trovare una risposta, nel tempo mi sono accorta che quella non è nemmeno la domanda esatta… la domanda esatta, più infida, che in realtà mi sto ponendo è: perché non posso essere sempre felice? Nel momento in cui me lo chiedo sono serissima, come se fosse possibile sia trovare una risposta sia soddisfare la richiesta, ovvero essere sempre felici. Come se fosse, tra l’altro, questione di performance. Ogni volta ci impiego qualche secondo di troppo a ricordarmi che questa aspirazione è pura utopia e che, in quanto tale, non potrà mai essere raggiunta. E meno male, aggiungo. Ma perché allora, periodicamente, questo interrogativo torna ad assillarmi e sempre con la stessa forza?

Sono convinta che molto di ciò che succede nel nostro cervello, in modo automatico, quando ci accostiamo al concetto di felicità sia fortemente influenzato dalla cultura del capitalismo e dell’apparenza che domina il nostro quotidiano; per essere sempre felici dovremmo avere più soldi, più successo, più riconoscimenti, più di tutto e non solo, dovremmo avere poi sempre più di tutto perché, a quel punto, niente basta mai. D’altra parte non è un caso che la stragrande maggioranza delle pubblicità siano “aspirazionali” ovvero che, insieme al prodotto, mirino a venderti la sensazione, ovviamente positiva, di come potresti sentirti se solo possedessi quel prodotto. Inoltre, e non è secondario, per un altro vizio di cultura in Occidente siamo portati a considerare le cose positive molto più di quelle negative, dimenticandoci che:

  1. le cose negative sono tanto necessarie quanto quelle positive per la nostra evoluzione personale;
  2. spesso le cose belle, quelle belle davvero, vengono fuori da cose meno belle come, ad esempio la fatica e il sacrificio;
  3. senza il negativo, come faremmo mai a sapere cos’è il positivo (Eraclito, mi senti)?

Già solo tenere a mente queste cose mi aiuta a ridimensionare all’istante il fastidio che provo quando mi accorgo che, di nuovo, mi sto arrovellando sul nulla. Quello che spero di riuscire a fare un giorno è smettere del tutto di chiedermi se sono felice (e cercare di misurarne il “quanto”), di pianificare e agire dando la caccia a una cosa fugace, contingente (quello che mi fa felice oggi, magari non mi fa felice domani) e mutevole come la felicità.
Vorrei smettere di dirmi che se solo avessi/potessi fare una determinata cosa o se solo qualcosa fosse diverso sarei più felice (salvo che poi, anche quando la condizione si realizza, capita di sentirsi felici per circa tre secondi prima di cominciare a inseguire qualche altra chimera) e, semplicemente, vivere tutto l’enorme casino che è questa vita. Anche perché ho come idea che la ricerca spasmodica della felicità sia in realtà la più grande antagonista alla sua realizzazione e possa rendere più difficile riuscire ad assaporare con spontaneità e fino in fondo tutti i piccoli assaggi di felicità che ci vengono dispensati dal caso.

Hai mai pensato a quanto la nostra cultura abbia idealizzato il concetto di felicità?
Ti va di raccontarmi di quella volta che credevi che la realizzazione di un obiettivo ti avrebbe fatto toccare il cielo con un dito, ma poi non è stato così?

Sono una mamma, ma sono anche (ancora) la persona di prima

Riprendere a scrivere dopo un periodo di assenza così prolungato è sempre difficile. Penso di aver scritto e cancellato il primo paragrafo di questo post almeno una dozzina di volte. Troppo serio. Troppo caotico. Troppo superficiale. Troppo caciarone. Troppe giustificazioni. Troppo forzato. Troppo, troppo, troppo.

A una certa mi sono chiesta se sono ancora capace di concentrarmi e tirare fuori, scrivendo, quello che voglio davvero dire. A una certa mi sono risposta che practice makes perfect e che mi perdonerò se questa reintroduzione al mio blog avrà enormi lacune dovute al fatto che è più di un anno che non scrivo niente di niente. Manco una caption su Instagram, per intenderci.

Sarà che l’esperienza della maternità è molto diversa da quello che immaginavo, con difficoltà che mi sembrano insormontabili fino a quando, improvvisamente, non sono alle mie spalle. Sarà che poi uno ci mette anche il rientro a lavoro, la cura della casa e gli incastri da fare per dare un minimo di spazio anche agli aspetti sociali della vita. Sarà che è tutt’ora una corsa vertiginosa e qualcosa mi dice che i prossimi anni non saranno molto diversi. Sarà che tutto intorno è cambiato; perché se c’è una cosa che mi è stata detta e che si è rivelata vera è proprio la classica frase “un figlio ti cambia la vita” (ma di questo ne parleremo più approfonditamente in seguito, altrimenti ricasco subito nel “troppo serio” e cancello tutto di nuovo).

Io però mi sento al contempo cambiata e non cambiata: sono sì una mamma, ma sono anche la persona di prima. Ho dovuto fare spazio, tanto spazio, a nuove cose, ma per quanto poco tempo (o possibilità) io abbia da dedicargli, ho ancora gli stessi interessi di prima e non ho alcuna intenzione di mollarli né di annullarmi completamente sull’altare della maternità; in realtà, il solo fatto di rimettermi a scrivere su questo blog delle cose di cui faccio esperienza e delle riflessioni che ne scaturiscono è uno dei miei interessi. Dunque, questa è una dichiarazione di intenti (e ci metto pure la faccia!), il mio proposito è questo: benché argomenti a tema genitorialità e affini troveranno grande spazio nel blog (perché, al momento, essere mamma occupa quasi tutto il mio tempo e di cose da dire ce ne sono eccome), farò tutto il possibile per ritagliare, qui come nella “vita reale”, uno spazio che sia della me-persona e non della me-mamma e quindi farti trovare un’alternanza tra post “vecchio stile” e i nuovi argomenti; anzi, voglio esagerare, azzarderò anche qualche tentativo di fusion.

Perché?
Perché crescere è cambiare, un cambiare che è evolvere sulle basi di quanto si aveva già, e con un titolo come “The Growing Up Chronicle” mi farei uno sgarbo a tagliare fuori l’una o l’altra parte di quella che è la mia vita, esteriore e interiore, in tutto il suo incasinatissimo insieme.

Allora, ti va di ripartire all’avventura con me?
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